Pubblicato su Carmilla il 24 marzo 2014.
[Stavo per impaginare una segnalazione di alcuni titoli di saggistica, quando il caso ha voluto che un collaboratore di Carmilla, Simone Scaffidi Lallaro, mi abbia proposto un’interessante recensione di uno dei libri che avevo intenzione di segnalare, cioè Morti di fama di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino. Ho colto al volo l’occasione montando la sua recensione assieme alla mia segnalazione, che sta in coda alle sue parole] A.P.
Giovanni Arduino, Loredana Lipperini, Morti di fama. Iperconessi e sradicati tra le maglie del web, Milano, Corbaccio, 2013, pp. 137, € 12.90.
di Simone Scaffidi Lallaro
Un libro che non avrei mai comprato e che a dirla tutta non ho comprato davvero. Il caso ha voluto che appena ricevuta la tessera magnetica per i prestiti fai da te ho notato tra le novità la copertina bordeaux di Morti di fama e non ho resistito all’attrazione di provare le nuove tecnologie bibliotecarie. Certo, le novità sullo scaffale erano molte e oltre al titolo ammiccante sono stati i nomi degli autori – Loredana Lipperini e Giovanni Arduino – a convincermi al grande passo.
Non l’avrei mai comprato perché so benissimo che Marco Zuccadalbergo & Co. lucrano quotidianamente e senza scrupolo alcuno sulla mia vita. Perché so che la rete non è un enclave pacificata e che i ritornelli sul web buono, partecipativo e democratico rappresentano mere retoriche consolatrici e strumentali. E lo so perché conosco i profili dei miei nemici: sono gli imprenditori di sempre, gli sfruttatori di sempre, i delatori di sempre. La rete non li ha resi più umani. Conosco le loro tecniche, il loro ostinato nascondersi dietro progetti filantropici e all’infinita bontà del progresso. Ma so anche qualcos’altro, e questo sì, incrina le mie certezze: leggendo Morti di fama sarò io il protagonista, non i miei nemici; io la voce narrante, loro le figure di sfondo. E questo mi turba. Titolo e sottotitolo provocano in me sentimenti contrastanti: e se anch’io fossi un morto di fama? Sto per abbandonarmi all’idea che gli aggettivi sostantivati iperconesso e sradicato calzino il mio profilo senza troppo sforzo quando recito a memoria il mantra auto-assolutorio abusato da almeno due generazioni: «l’importante è come lo usi». Formula che in realtà si sostituisce alla più sfacciata: «io lo uso bene» e che catapulta immediatamente chi la pronuncia al di fuori del conflitto che sta alla base di ogni interazione sociale mediata.
Qualcosa è scattato. Banali autoinganni profumati di certezze vacillano e anche le cristallizzate sicurezze sul conto dei nemici sembrano svanire. In Morti di fama non trovo risposte illuminanti ai miei dubbi, ma la contestualizzazione di domande che hanno poco a che vedere con l’etere e molto a che spartire con la quotidianità terrena delle nostre vite. Quanto valiamo per loro? Come contribuiamo ai loro imperi? Che ruolo abbiamo noi nella rete? Siamo o non siamo indici e molteplicità di dati da capitalizzare? E i guadagni della capitalizzazione come vengono distribuiti?
Giovanni Arduino e Loredana Lipperini sono stati bravi a costruire un phamplet di antropologia non egemonica capace di includere un’estesa moltitudine di autorialità. Le voci che si alternano nel libro sono infatti attente a comprendere i meccanismi della microfama senza giudicarne i protagonisti (molti dei quali hanno l’occasione di dire la loro), ma allo stesso tempo non si esentano dal condannare – e qui sì giudicare senza mezzi termini – le politiche dei grandi colossi del capitalismo digitale – che poi tanto digitale non è – tra cui spiccano Facebook, Google e Amazon. I concetti di microfama e morte per fama vengono affrontati dunque in maniera orizzontale dai due narratori, primi a mettersi in discussione e ultimi a tirarsi fuori dalla contraddizione di fondo che serpeggia tra i termini del discorso. Non è un caso infatti se nel testo si parla diffusamente di mercato editoriale e di self-publishing e se le frecciate contro le politiche dei grandi editori – sempre più conniventi con i grandi interessi economici – vengono scagliate senza nascondere la mano. Gli autori sanno bene che l’editoria non è un luogo pacificato, esattamente come non lo è il web; l’equazione diventa così elementare: web + editoria = contraddizione², o se preferiamo contraddizione 2.0. Meno elementari sono invece le motivazioni che spingono svariate milioni di esseri umani – di tutte le età – ad affollare i social network e a sgretolarsi in essi, ricercando l’emulazione di chi la fama già ce l’ha (microfama) o la celebrazione ad ogni costo – per godere di quindici minuti di luce riflessa – di chi la fama ce l’ha avuta (necrofama).
L’attrazione/repulsione che genera questo phamplet è legata a una voglia/paura di fondo: quella di affrontare le contraddizioni in cui siamo immersi con la consapevolezza che chiamarsene fuori, oltre che essere impossibile, è un po’ da vigliacchi. Morti di fama bisogna leggerlo – e comprarlo – perché è contraddizione allo stato puro, esplosione feconda di domande a cui gli autori non pretendono di avere messianiche risposte. Provano anzi, con un linguaggio tanto denso di contenuti quanto semplice nella forma, a problematizzare e comprendere insieme al lettore i meccanismi nei quali, volenti o nolenti, siamo tutti coinvolti. Un testo importante anche nel sottolineare la natura collettiva e culturale di un problema che va affrontato senza fuggire la complessità del reale e interrogandoci sull’onestà delle nostre aspirazioni.
Multisegnalazione
di Alberto Prunetti
Sul comodino sono passati parecchi libri di saggistica. Alcuni servivano per documentarmi sui prossimi progetti di scrittura, qualcosa non era nelle mie corde e l’ho abbandonato. Altri, usciti di recente, mi sono sembrati assolutamente interessanti e li segnalo, con un po’ di ritardo rispetto alle mie intenzioni, ai lettori di Carmilla.
Cominciamo con Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini. Un pamphlet sulle pratiche di fruizione dei social media. Un lavoro brillante, ben scritto e affilato, che contribuisce a smontare il mito della Rete come un organismo democratico e creatore di scelte consensuali. Nello stesso tempo, le pagine di Arduino e Lipperini evidenziano le zone d’ombra dei social network. A cominciare da quelle pratiche di ignoranza e di grossolana esibizione della propria identità, mescolate al rancore verso gli altri, che tanti social diffondono: la condivisione del rancore, che altro non è che l’incapacità di incidere socialmente. Bisogna intendersi: non è la rete che ci fa hater rancorosi. Probabilmente fa da megafono, come diceva un tale: il problema è che amplifica il peggio e che, mortificando la lettura, alimenta un analfabetismo di ritorno.
Tra i tanti fenomeni negativi evidenziati da Morti di fama c’è la politica coniugata come una forma di “mipiaccismo” (del tipo: far girare una petizione e poi chiedere di mettere tanti mi piace sotto, senza nessun sbattimento nel mondo reale); le forme politiche di micropromozione di wonnabe scrittori e artisti che si auto-pubblicano a pagamento ma non leggono un libro in un anno; l’editoria digitale e le pratiche di sfruttamento dei colossi della nuova editoria online, come Amazon. E poi le strategie di marketing collegate ai blog personali, in cui le persone comuni diventano importanti brand che valgono tanto quanto un tempo i testimonial celebri. Un mondo da brividi, in cui l’economia utilizza tutti quei momenti di informalità che passano attraverso i “mipiace” sotto le foto dei gattini di Facebook. E poi la vendita di follower su Twitter e di “mi piace” su Facebook, le campagne di rebranding… altro che rete libera e democratica, le rete è perlustrata e eterodiretta da quelle aziende che competono in ogni settore, che fanno campagne di marketing politico e che, grazie agli influencer. spostano byte da una tendenza, commerciale e politica, all’altra.
C’è qualche segnale in senso inverso. Non se ne parla nel libro, ma la citazione è doverosa: Lipperini si è inventata una sorta di rubrica nel suo profilo Facebook. Ogni sera inserisce come commento un passo, in genere una poesia, di Franco Fortini. E’ “il Fortini della sera”, una sorta di rubrica di culto su Facebook che sta contribuendo a far circolare, tra tanti nuovi lettori, la conoscenza di uno dei migliori poeti e critici italiani del Novecento.
Sempre di Loredana Lipperini – uscendo dal seminato della saggistica – segnalo questa bella incursione nella letteratura per ragazzi… e per vecchi: Pupa (Rrose Sélavy, pp. 29, euro 12). Un bel dubbio su questo librone formato quaderno, impreziosito dalle illustrazioni di Paolo d’Altan: non so se passarlo a mia sorella perché lo legga al mio nipotino (3 anni) o se passarlo a mia mamma perché lo legga a mia nonna (95 anni). Intanto me lo son goduto io per davvero e mi ha fatto venir voglia di leggere altri libri di letteratura per ragazzi. Anche perché questa storia arriva a coronamento di un altro libro di Lipperini che ho apprezzato, Non è un paese per vecchie, che con Pupa ha tanto in comune (pur nel cambio di marcia stilistico). Pupa sta a metà tra la letteratura prospettica e quella per ragazzi: in una società futura molto uniformata gli adolescenti devono obbligatoriamente dedicarsi a compiti di cura degli anziani. Ma la vecchia signora Pupa, lontana dal farsi “badare” (che brutta parola, peraltro), rovescerà le carte in gioco. Una rivendicazione della bellezza della vecchiaia, in un’epoca in cui essere giovani a tutti costi è un triste imperativo sociale.
Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, Il quinto stato (Milano, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 255, € 14)
Questo è un libro di cui volevo parlare da tanto tempo ma non trovavo il tempo di farlo. Innanzitutto ero sicuro che sarebbe stato interessante leggerlo perché seguo sempre gli articoli di uno dei due autori su Il Manifesto, che si occupa di cose che attraversano il mio vissuto e quello di tanti nella mia condizione: il precariato, l’insegnamento, le trasformazioni del nuovo capitalismo. Nel Quinto stato è facile riconoscersi: Il problema è capire qual è la sua composizione e se questo stato riuscirà mai a sviluppare forme di mobilitazione, di antagonismo e di lotta come quelle espresse tanti anni fa dal quarto stato. Il saggio è scorrevole e acuto come un pamplet e insieme denso come un testo di filosofia. A tratti ha passi poetici, di quel tipo di poesia espressa da Hegel nella dialettica servo/padrone. E’ un libro che parla di “noi” precari e, in una temperie editoriale tutta dedita al tema del precariato, è forse uno di quelli che lo fa meglio… Su alcuni punti sono un po’ scettico, ma temo che abbiano ragione loro, ovvero i due autori. Ovvero sul fatto che il lavoro non dipendente sarà il nostro futuro. Il saggio affronta anche la questione, complessa e rilevante, dei ceti medi in rapido impoverimento. L’ipotesi più interessante è quella dei piccoli imprenditori e dei ceti medi che si radicalizzano su posizioni anticapitaliste, che viene tra altre cose auspicata da Allegri e Ciccarelli. Non che non sia possibile: è successo anche in Argentina nel 2001, quando i piqueteros proletari e i ceti medi proletarizzati unirono le forze. E fu quasi una rivoluzione. Mi sembra però che la direzione che le cose stiano prendendo vada più verso una proletarizzazione del rancore dei ceti medi e piccolo imprenditoriali, mentre i veri imprenditori, i grandi padroni, aumentano la propria ricchezza cavalcando la crisi. Comunque leggersi questo libro è un momento di autoconsapevolezza, di coscienza di sé, una lettura che chi oggi subisce l’estrazione del plusvalore come cococo, cocopro o sotto uno dei mille contratti del cavolo, anche in un call-center con una laura in tasca,deve assolutamente fare.
Dimitri Papanikas, La morte del tango. Breve storia politica del tango in Argentina (Bologna, Ut Orpheus, 2013, pp. 122, € 16)
Un piccolo libro ma impegnativo, come dev’essere un libro. Se vi aspettate una storiella del tango statene alla larga. Il bel saggio di Papanikas è un’analisi storica e politica del tango, intrecciata con gli sviluppi musicali e sociali dell’Argentina. Dal ruolo dell’emigrazione europea allo sterminio degli immigrati di origine africana, dal genocidio degli indios a quello dei desaparecidos degli anni Settanta. Da Discepolo a Carlitos Gardel, dal tango canción alle orchestre di Pugliese, fino alle leccate di culo verso i potenti di turno di Piazzolla, i mondiali del ‘78 e la nuova stagione del tango-turismo. Papanikas, che lavora alla radio spagnolo, scrive un’opera molto lucida e profonda che rimane imprescindibile per chi voglia confrontarsi con il paese argentina e ha molte affinità con i saggi dei De Caro sull’Argentina, contenuti in Storia senza memoria (Colibrì, 2008). Il saggio esce non a caso per le edizioni bolognesi Ut Orpheus, dirette da Roberto De Caro, autore assieme al padre Gaspare di alcune delle pagine più incisive sulla storia del Novecento in Argentina. Agli amanti del genere suggerisco la lettura di La morte del tango in contrappunto con la scrittura del maestro Marco Castellani, redattore della The Tangueros Quarterly Review.