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I negri di Rio de Janeiro: meticciato vs multiculturalismo

Pubblicato su Carmilla il 19 novembre 2013.

[AVVERTENZA: nel testo che segue sono stati volutamente usati i termini “negro” e “negri”, senza virgolette né corsivo. Si è tentato così di tradurre  l’ordinarietà del razzismo nostrano e brasiliano nella sua forma più semplice e spietata, senza smorzature semantiche e politically correct da cena di gala]

Meu nome è revolta

Meu nome è revolta

Per l’ennesima mattina calpesto le pietrose discese di Santa Teresa, respiro la polvere dei lavori in corso di Lapa e osservo il vuoto lasciato dall’esplosione di una bombola di gas in praça Tiradentes. Supero il trafficante di figurine e all’improvviso un negro scalzo dai pantaloncini a brandelli mi taglia la strada. Il sudore gli scorre lento sulla schiena frenato dalla polvere, i nervi in tensione dal collo al tallone ne arginano la discesa. Il negro sta trainando un carretto di legno carico di grosse sacche di plastica trasparente da cui fuoriesce un liquido incolore. Sudore e liquido si mescolano sull’asfalto ardente e si dissolvono in pochi secondi senza lasciare traccia alcuna del proprio passaggio, nulla possono le ombre mastodontiche dei grattacieli del quartiere Centro contro il sole cocente dei tropici.

Il negro trasporta ghiaccio. Il contrasto tra lo scintillante candore del suo carico e l’oscurità della sua ombra potrebbe giustificare da solo il settimo posto occupato dal Brasile nella speciale classifica redatta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale dei paesi con il PIL più elevato del globo. Penso a Fitzcarraldo, nel capolavoro omonimo di Herzog, e alla sua follia colonialista di impiantare una fabbrica di ghiaccio in Amazzonia. Dove lui ha fallito, altri hanno vinto. Dove lui ha ucciso per esaudire i suoi sogni di gloria e potenza altri hanno continuato ad uccidere. Negri o indios che siano vengono travolti dalla rovinosa bramosità di potere occidentale. Sia essa una nave che scavalca una montagna, sia essa una fabbrica di ghiaccio, le braccia e le morti che rendono possibile la criminale impresa rimangono le stesse.

Le ho proprio davanti a me quelle braccia. Le stesse che consentiranno al Brasile di Lula e Dilma di sfilare sulle passerelle dell’economia mondiale con capi da top-model-neoliberista: Mondiale 2014 e Olimpiadi 2016 saranno i pezzi forti della collezione estiva. Aspettando i grandi eventi sportivi, il negro e il ghiaccio si sciolgono insieme, l’uno rinchiuso in un involucro trasparente che ne accelera la liquefazione, l’altro intrappolato in un meccanismo tanto globale quanto locale che gli consuma le piante dei piedi giorno dopo giorno.

Opera d’arte di Vik Muniz prodotta con materiali di rifiuto.

Opera d’arte di Vik Muniz prodotta con materiali di rifiuto.

Largo de São Francisco de Paula è ormai vicino. La piazza e l’alto cancello mi separano dall’Istituto di Storia. A protezione dell’accademia si erge un esercito negro di mendigos. Sono sdraiati davanti alle sbarre. Venti paia di piedi nudi, sporchi e callosi, legati a quaranta fantasmi giovani e negri. Tre bambini si alzano d’improvviso e con uno sguardo complice fracassano due vecchie videocassette, sanno cosa stanno facendo. Con sicurezzane estraggono le pellicole. La prima la legano a un sacchetto bianco della spesa targato Mundial (nota catena di supermercati carioca da non confondersi con l’evento che sta già contribuendo a cambiare radicalmente il volto della città), la seconda a un sacchetto nero della spazzatura. Gli aquiloni sono pronti al volo. La corsa forsennata dei bambini per la piazza non si fa attendere, il nastro nero stretto fra le dita si tende e i sacchetti si alzano nell’aria. Le donne sono poche, seminude come gli uomini, alcune allattano neonati tra le braccia, altre cercano riposo tra cartoni e lattine, altre ancora provano a varcare la soglia dell’Istituto di Storia per riempire bottiglie d’acqua potabile. Basterebbe accucciarsi e scattare una rapida istantanea per vedere nitide alle loro spalle le sbarre della prigione, il cancello dell’accademia, strumento supremo di segregazione razziale.

Dentro i bianchi, fuori i negri è la legge non scritta dell’università e della società brasiliana. L’università è pubblica e gratuita per tutti, un po’ come l’esistenza, verrebbe da dire, ma le possibilità di accedere a un’istruzione di livello e a un’esistenza dignitosa comporta comunque dei costi che, oltre a non essere equamente distribuiti, vanno al di là del valore nominale del PIL pro capite. Le università pubbliche in Brasile, come in altri paesi dell’America Latina, sono a numero chiuso e per accedervi è necessario avere una buona preparazione che non viene però garantita dalle scuole superiori pubbliche. Succede quindi che chi non può permettersi di frequentare una scuola superiore privata ha molte meno possibilità di passare il test per accedere all’università. Risultato: i poveri non possono frequentare la scuola superiore privata, i poveri sono in prevalenza negri e indios, i negri e gli indios rimarranno in gran parte esclusi dalla società.

Largo Sao Francisco de Paula

Largo São Francisco de Paula

Gli uomini e le donne che vivono davanti all’Istituto di Storia hanno tre principali occupazioni: schiavi nel grande mercato all’aperto che è il Centro di Rio de Janeiro durante il giorno, assaltatori di studenti e gringos, nel deserto far west che è il Centro di Rio de Janeiro durante la notte, e i catadores de lata ovvero i raccoglitori di lattine. Questi ultimi sono l’orgoglio della nazione, coloro che la consacrano primatista mondiale nel riciclaggio dell’alluminio. Ad ogni ora si aggirano per le vie di Rio de Janeiro in cerca di lattine vuote. Ogni chilo di alluminio raccolto, corrispondente a circa 67 lattine, si traduce in 3,00 reais (più o meno 1,00 €), una volta consegnato all’autorità competente. Il primato ha il peso sociale dei sacchi neri ricolmi di latta che gravano sulle spalle dei negri senza fissa dimora.

Viralata è una delle mie parole preferite in portoghese brasiliano, letteralmente significa: gira latta. Si usa per indicare i cani senza padrone, i randagi che vivono nella strada e spesso per sopravvivere sono costretti a girare le lattine vuote in cerca di qualche liquido da ingerire. Ma ha anche un altro significato, si usa per identificare un cane la cui razza non si riesce più a definire a causa dei molteplici incroci che si sono succeduti per generazioni e generazioni: un bastardo dunque.

Di viralata randagi abbandonati dalla società in Brasile ce ne sono a milioni. Molti meno sono i viralata bastardi a causa del consolidato e indissolubile connubio tra diseguaglianze sociali, distribuzione della ricchezza e discriminazioni razziali su cui si fonda il tanto osannato multiculturalismo brasiliano. La razza sfruttata ha un colore ben preciso, così come lo ha la classe dirigente brasiliana che si ostina ad abbracciare le logiche del più becero capitalismo mondiale, il quale ribadisce sempre con più forza la necessità di innalzare un solido muro sulla linea del colore per mantenere lo stato delle cose esistente. Ad ogni colore il suo ruolo sociale. Multiculturalismo appunto, non meticciato.

Ghost Track

A. Mohamed e Wu Ming 2, Timira. Romanzo meticcio, Einaudi, 2012

A. Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, 2012

A. Staid, Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù, Agenzia X, 2011

Posted in contronarrazioni, latinoamerica.

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