Pubblicato su Carmilla il 5 febbraio 2014.
Il 10 giugno 1924 una squadra fascista capitanata da Amerigo Dumini sequestra e uccide il segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, reo di aver denunciato alla Camera i brogli elettorali e le bastonate delle milizie fasciste. Un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, il paese che ospita la comunità di immigrati italiani più grande del mondo si prepara a festeggiare il venticinquesimo anniversario della salita al trono di Vittorio Emanuele III. Al teatro Colón di Buenos Aires tutto è pronto per la festa, allestita dalla delegazione del Fascio. La banda si appresta a eseguire l’inno di Mameli mentre le dame e i signori borghesi scalpitano impazienti dentro i loro vestiti migliori. La marcia parte e all’improvviso dalle prime file della platea si alza un grido: “Assassini! Ladri! Viva Matteotti!”, corredato da una fitta pioggia di volantini che investe le guardie fasciste.
La caccia all’uomo ha inizio, volano cazzotti e spintoni. Nel parapiglia generale, l’ambasciatore italiano Luigi Aldrovandi Marescotti, conte di Viano, afferra un volantino piovuto dai piani superiori. Il nervosismo lo pervade, il pensiero vola a Mussolini e alle sue supreme direttive: consolidare l’immagine del regime fascista in Argentina. Non ha nessuna voglia di leggerlo, vorrebbe strapparlo, ma un ragazzotto biondo lo libera dalla dovuta incombenza facendo vibrare con le sue urla i manganelli delle camicie nere:
«… Santificatori della monarchia Sabauda avete dimenticato che proprio sotto il regno di Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà… di pochi Re d’Italia; sorse, si alimentò nel sangue, quell’accozzaglia di briganti che si chiamano i FASCISTI… con tutti i suoi Dumini, i Filippelli, i Rossi, i De Vecchi, i Regazzi, i Farinacci… e che trova in Benito Mussolini la più precisa e perfetta raffigurazione di tutte le infamie… Glorificatori della Monarchia appuntellata dal pugnale dei Dumini scrivete nella storia della Casa Savoia questo nome glorioso: Matteotti! Ricordate i 700 assassinati nel 1898 dai cannoni di Umberto il Buono. W la mano di Bresci!…»
Dal 6 al 9 marzo 1898 a Milano, l’esercito regio di Umberto I, comandato dal generale Bava Beccaris, scaricava la sua artiglieria sulla piazza gremita di operai provocando una carneficina. Due anni più tardi e due mesi prima della nascita di Severino di Giovanni, l’anarchico Gaetano Bresci tornava in Italia dall’America per vendicare i massacri del regno d’Italia, quelli siciliani del 1894 e quelli milanesi del 1898. Il 29 luglio 1900 sotto i colpi della sua rivoltella cadeva Re Umberto I, soprannominato il “re Buono”.
Il biondo del teatro Colón di Buenos Aires si chiama Severino di Giovanni. È un tano[1], arrivato in Argentina da meno di tre anni e già entrato nei registri della polizia bonaerense a seguito di questa azione. Nel 1922 ha 21 anni quando lascia l’Abruzzo e s’imbarca per l’America con la moglie Teresina e i suoi figli. Non sogna il Nuovomondo, sa che per quelli come lui la vita è dura su entrambe le sponde dell’Atlantico. Decide di partire perché non tollera l’avanzare del fascismo e il crescere della repressione nei confronti degli anarchici. Oltreoceano diventa presto uno dei massimi esponenti della corrente illegalista dell’anarchismo argentino. Sostiene la campagna internazionale di solidarietà agli anarchici Sacco e Vanzetti con gli articoli pubblicati sul suo giornale “Culmine” e con ripetuti assalti alle banche. Crede ferventemente nella legittimità di queste azioni. Sulla sua scrivania c’è scritta una frase di Fichte:
«chi non ha il necessario per vivere non deve riconoscere né rispettare la proprietà degli altri: i principi del contratto sociale sono stati violati a suo sfavore»
I soldi ricavati dai colpi messi a segno servono per finanziare il sostentamento delle famiglie dei compagni arrestati, la propaganda libertaria a mezzo stampa e il suo ambizioso progetto di pubblicare l’opera completa di uno dei suoi autori preferiti: il geografo pacifista e anarchico Élisée Reclus.
Solcando le strade degli espropri e dell’illegalismo di terra argentina Severino incontrerà diversi anarchici europei, tra cui Buenaventura Durruti – protagonista della Guerra Civile spagnola del ’36 – con il quale condividerà alcune azioni. Ma non tutto il movimento anarchico argentino accetta le pratiche illegaliste di Severino. Men che meno quando queste provocano morti o feriti innocenti e inaspriscono la repressione nei confronti degli anarchici. È il caso della bomba alla National City Bank, ventitré feriti e due morti, e dell’ordigno esploso al Consolato italiano, nove morti, di cui sette fascisti italiani, e trentaquattro feriti.
A seguito di queste azioni Severino diventa il nemico pubblico numero uno della Repubblica Argentina e viene violentemente attaccato da alcuni esponenti del movimento anarchico bonaerense. Al sentirsi accusare di fascismo Severino s’infuria. L’invettiva arriva dalle colonne del quotidiano anarchico “La protesta” e più precisamente dalle penne di Lopez Arango e Diego Abad Santillan (dirigente della CNT e della FAI durante la Guerra Civile spagnola). È l’inizio di una profonda frattura che attraverserà il movimento libertario argentino e lo porterà allo sfacelo. López Arango viene assassinato e l’autore del misfatto è con tutta probabilità Severino di Giovanni. L’anno successivo lo stesso Severino chiede, con una lettera inviata a Luigi Fabbri – insieme a Malatesta la figura più riconosciuta dell’anarchismo internazionale dell’epoca –, che le azioni da lui portate a termine vengano giudicate a seguito degli attacchi de “La Protesta”. Il tribunale anarchico che si formerà e al quale prenderà parte anche Hugo Treni (alias Ugo Fedeli) giudicherà le pesanti accuse contro Severino infondate anche se molti compagni non giustificheranno mai l’assassinio di Arango.
Braccato dalla polizia e consigliato dai compagni decide di fuggire dall’Argentina destinazione Francia. Solo che la ragazza di cui è innamorato, América Scarfò, non è ancora maggiorenne e non può lasciare il paese senza l’autorizzazione dei genitori. Severino s’improvvisa così regista di teatro e mette in scena un’opera buffa che si prende allo stesso tempo gioco della morale borghese e dei dogmi cattolici. Convince un compagno anarchico, Silvio Astolfi, a fidanzarsi fittiziamente con América e ad andare a casa sua ogni giorno per corteggiarla. Iniziano così le pratiche tradizionali che avrebbero portato i due ragazzi al matrimonio. I genitori si convincono della genuinità del loro amore e concedono a Silvio Astolfi di sposare América. Pochi mesi più tardi il sacramento si consuma.
Ora con il consenso del marito la sposa può espatriare. Il loro viaggio di nozze dura il tempo di una corsa in macchina per arrivare da Severino che li aspetta fuori città con delle rose rosse in mano. In questo periodo, nonostante il cerchio intorno a lui si faccia sempre più stretto Severino trascorre probabilmente i mesi più sereni della sua vita insieme ad América. È a un passo dalla fuga e dalla rinascita in Francia, dove i compagni italiani espatriati lo aspettano. Ma accade un imprevisto: il fratello della sua compagna viene incarcerato. Severino non se la sente di fuggire in Europa senza aver prima liberato il compagno di idee e di tanti colpi. Insieme a Paulino Scarfò, fratello di América e Alejandro, tenta l’ultimo colpo in terra argentina ma fallisce. Il tempo stringe e a peggiorare la situazione ci si mette l’inasprirsi della repressione dettata dalla conquista del potere del dittatore Uriburu.
La sera del 30 gennaio 1931 la tipografia di Gennaro Bontempi è circondata dai poliziotti, Mario Vando (alias Severino di Giovanni) esce allo scoperto e si accorge del pericolo. Inizia una corsa forsennata, seguita da una sparatoria che costerà la vita a una bambina e a un poliziotto. Anche Severino è a terra ma non è morto. Forse si è sparato da solo, forse l’hanno colpito. Il giorno successivo viene processato. La difesa è affidata a un tenente dell’esercito che metterà in discussione le accuse mosse nei confronti dell’anarchico e per questo si guadagnerà l’esilio forzato in Paraguay.
La mattina del 1 febbraio 1931 sembra di essere tornati indietro di sei anni, a quel teatro Colón allestito a festa dai fascisti. Gli invitati sono gli stessi: dame e signori borghesi che scalpitano impazienti dentro i loro vestiti migliori. I militari argentini preparano il palcoscenico. Severino entra in scena. Risa e scherni. Ha gambe e braccia legate. Lo legano alla sedia con delle corde per evitare che il cadaveri si afflosci a terra una volta colpito a morte. Il plotone si schiera davanti a lui. Un ultimo grido: «Viva l’anarchia!» e si chiude il sipario. Gli spettatori tornano nelle loro case accoglienti e intanto la storia di Severino vola da una parte all’altra dell’oceano.
Il giorno dopo nello stesso modo ammazzeranno Paulino Scarfò, le sue ultime parole saranno le stesse di Bartolomeo Vanzetti: «Signori, buona notte, viva l’anarchia!»
[1] Tano, tanos: termine con il quale venivano chiamati gli immigrati italiani in argentina, da napolitano/s.
Per approfondimenti
O. Bayer, Severino di Giovanni, Agenzia X, 2011.
O. Bayer, Severino di Giovanni, «Carmilla», 10 dicembre 2011.
C. Cattarulla, Anarchici italiani in Argentina: Severino di Giovanni, «DEP – Deportate, esuli, profughe», 11, 2009, p. 81-93.
V. D’Andrea, Viva l’anarchia!, «Adunata dei Refrattari», 28 marzo 1931[traduzione inglese].
A. Prunetti, America, «Carmilla», 13 settembre 2006.
G. A. Stella, Severino di Giovanni, storia d’amore e d’anarchia, «Corriere della Sera», 31 dicembre 1999.
Sur Blog, L’esecuzione di Severino di Giovanni, «Sur Blog», 14 dicembre 2011.
Approfondimento musicale
O. Bayer & Quinteto Negro La Boca, Milonga para Severino