Raccontare mille storie alternative è importante ma bisogna anche saperle raccontare bene le storie alternative. Questo è il risultato di un taglia e cuci durato troppo che è sbottato in questo testo mal partorito a fatica. Se non lo pubblico oggi non lo faccio più. Oggi se ancora fosse vivo Ernesto Che Guevara ne compierebbe 85 di anni e sono sicuro che non starebbe dietro una scrivania o davanti a un televisore. Cercherebbe la morte da qualche parte, forse in Val Susa, forse in qualche paese dell’Africa, forse in Colombia o forse nella sua Argentina.
Victoria o muerte diceva. Ha sempre perso e non è mai morto.
Quando il Che non era ancora il Che, portava sempre i capelli corti o rapati. Nessun basco nero, nessuna chioma ribelle, nessun sigaro stretto tra i denti e anche la barba faceva fatica a spuntargli. Cuba è lontana almeno quanto l’Argentina dall’Isola di Pasqua [1] e Fidel Castro è ancora un illustre sconosciuto. I suoi compagni di avventure hanno nomi meno romantici di coloro che lo accompagneranno all’immortalità: nella lista non compare nessun Camillo Cienfuegos o Raul Castro ma un Calica, due Granado e poi Barral, Aguilar e Tita.
In famiglia il giovane Ernesto si guadagna presto il soprannome di Teté. Teté prima di essere il Che è un ragazzo vivace e determinato ma la sua virulenza è intervallata da fortissime crisi d’asma. Fin dalla nascita il suo respiro è soffocato – a cadenze regolari – dall’apnea. In questi momenti è come se fosse incastrato in un vasetto di passata di pomodoro sottovuoto, l’assenza di ossigeno lo costringe infatti a passare molte ore nel letto e lo priva della libertà di movimento. Ernesto è dato per sconfitto ma intuisce che l’unico modo per uscire da quel pantano è sfruttare la forza del suo nemico diretto. Come la passata di pomodoro resiste all’ossidazione privandosi dell’ossigeno e aspettando il momento giusto per sprigionare le sue proprietà nutritive Ernesto sfrutta le frequenti apnee per conservare la sua vitalità e fecondità. E lo fa immergendosi in due delle passioni che si porterà dietro per tutta la vita: gli scacchi e la letteratura («legge, legge a tutte le ore. All’inizio Jules Verne, Alexandre Dumas, Emilio Salgari, Robert Louis Stevenson, Miguel de Cervantes[2]»).
Negli anni del Liceo, frequentato a Córdoba, inizia a giocare a rugby. I suoi compagni di mischie e fango sono l’onnipresente e fedelissimo vaporizzatore – sempre pronto a bordo campo in caso d’improvvisi attacchi d’asma – e i fratelli Granado. In prima battuta milita nelle file della squadra dell’Estudiantes dove in breve tempo, a causa delle sue urla, si guadagna il soprannome di el Fuser, contrazione di Furibondo Serna [5]. Il salgariano el Fuser scalza il puerile Teté e la passione per la lettura aumenta. I latinoamericani Quiroga, Ingenieros e Neruda e gli occidentali London, Boccaccio, Steinbeck, Faulkner, Zola e Baudelaire si aggiungono alla speciale libreria asmatica di Ernesto, seguono la poesia e la psicologia con Freud, Jung e Adler. Ad affollare la stanza arrivano poi di gran carriera Mallarmé, Verlaine, Engels, Marx, Lorca, Machado e soprattutto il non-violento Ghandi[6] (di cui Ernesto ha grande stima, qualche anno più tardi un emozionato Ministro dell’Industria renderà all’indiano gli omaggi della Rivoluzione cubana). Sembra essere chiaro che el Fuser, seppur costretto a letto dal nemico, non lo combatte solo.
La sua breve ma intensa carriera rugbistica prosegue e in compagnia dei fratelli Granado approda nelle file del Club Atalaya. Qui nascono le premesse per il racconto della camicia bianca di Guevara. I nuovi compagni di squadra lo ribattezzano infatti el Chancho, ovvero il maiale. Non è particolarmente grasso, sono la sua ingordigia e trasandatezza a fargli guadagnare il nuovo soprannome. La leggenda vuole che lo chiamavano el Chanco perché puzzava come un maiale, «la fobia per l’acqua fredda, che a volte gli scatena gli attacchi d’asma, si è trasformata in abitudini igieniche elastiche. La mancanza di amore per i bagni e per le docce lo accompagnerà per tutta la vita[7]». Qualche anno più tardi un giovane Ernesto in versione giornalista non esiterà a utilizzare il soprannome dei compagni di spogliatoio, cinesizzandolo in Chang-Cho, per firmare i suoi articoli per la rivista Tackle, da lui personalmente curata. Insomma, dal porcile alla Cina parlando di rugby, mica male.
A ventidue incontra Chinchina[8], una ragazza dell’oligarchia locale di cui s’innamora. Lo stile del Chancho non lascia indifferenti i parenti della giovane e gli amici altolocati della coppia «ossessionati da pullover inglesi, stivali di cuoio e cravatte di seta». González Aguilar ricorda: «ridevano della sua eterna camicia di nylon che lui lavava quando faceva il bagno tenendosela addosso, ed erano divertiti dalla sua informalità e dalla sua sciatteria, che a me, a quell’età in cui si è stupidi, davano un po’ vergogna[9]». Appare finalmente la camicia bianca del Chancho, altro che uniforme verde oliva da guerrigliero! Il leggendario Ernesto Che Guevara pare puzzasse proprio e di rado si cambiasse la camicia.
Certo devono averlo preso in giro non poco per quella camicia bianca a cui aveva perfino dato un nome, semplice e diretto: «la camicia bianca ha una storia: una vera storia. Secondo suo fratello Juan Martín la camicia aveva un nome, era di nylon e lui la chiamava “la semanera”, perché era sufficiente lavarla una volta alla settimana e si stirava da sola[10]». Inutile negare o omettere che il Che non è stato solo il valoroso e romantico Comandante Che Guevara della Sierra Maestra e il premuroso ministro nella Cuba della Rivoluzione ma anche il maiale del Club Atalaya. La celebre foto seriale di Korda moltiplicata fino alla nausea in ogni luogo non rende totale giustizia a un capellone con barba e stelletta che è stato anche uno sporco glabro in camicia bianca: «una frase vera diventa una vuota bugia, se la ripeti mille volte uguale a sé stessa. Bisogna imparare a dirsi la verità, ma con vocaboli sempre diversi[11]». Vale anche per i nomi, le fotografie e le camicie.
GHOST TRACK Tratto da Fra narrazioni di trasformazione storica ed etica del mito: intervista a Wu Ming 1[12].
«Raccontare mille storie alternative» significa anche trovare mille alternative dentro una storia per troppo tempo raccontata in un modo solo. Rimuovere i ‘blocchi’ che ne avevano portato alla chiusura, i clichés, i detriti depositati dall’uso politico di una vulgata… La sfida ulteriore è quella di rimuoverli senza pregiudicare la ‘poesia’ del mito, cioè senza s-mitizzarlo, senza ridurne la complessità riportandolo solamente al suo significato storico. Per capirci: il rischio è quello di fare un lavoro ‘da meccanico’, absit iniuria. Come lo smontaggio e la pulizia di un carburatore. Ma non funziona così. Né ci interessa la mera ‘demistificazione’. Il trucco è quello di mostrare come funziona il mito senza sminuirne gli elementi che lo hanno reso seducente, motivante, illuminante. Per fare un esempio molto immediato: in molti dicono che l’icona di Che Guevara (la celeberrima foto di Korda) è abusata, mercificata fino ad avere perso ogni senso e divenire alienante etc. Lo dicono, e si fermano lì. A cosa serve? A niente. Quel che invece serve è cercare di raccontare la storia di Guevara trovandovi dentro le ‘mille alternative’ di cui sopra, gettandovi sopra mille sguardi. E’ quello che ha fatto Paco Ignacio Taibo II nella sua monumentale, magnifica biografia Senza perdere la tenerezza. Leggendola, matura lentamente una nuova comprensione di quella storia, anzi, delle tante storie che in quella vicenda singolare hanno trovato un catalizzatore, e si capisce anche perché quell’icona, a differenza di molte altre, non passi mai di moda. Si capisce che in quell’icona sopravvive un qualche barlume della grandezza originaria, dell’esemplarità della storia del Che. E si guarisce anche dal moralismo facilmente iconoclasta: se uno ha in casa il poster del Che, ben venga. E’ anche per il viatico dell’icona che il libro di Taibo ha avuto successo nel mondo, quindi non è vero quel che lamentano i moralisti, cioè che l’icona non serva a nulla. Ma è difficile camminare su questa corda tesa. È un lavoro da acrobata.
Note:
[1] Cfr. P. I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore, 1997, p. 44. Ernesto durante il suo viaggio per il Sudamerica in compagnia di Alberto Granado vuole raggiungere l’Isola di Pasqua, i due arrivati a Valparaiso (Cile), aspettano invano proprio una nave che li porti all’Isola del pacifico.
[2] Ibidem, p. 23.
[3] Ibidem, p. 45. Così Ernesto descriverà le condizioni dei minatori sfruttati dalle compagnie inglesi nei pressi di Antofagasta (Cile) «la grandezza dell’impianto minerario è simboleggiata dai diecimila cadaveri che si trovano nel cimitero».
[5] De la Serna è il cognome di Celia, la madre di Ernesto.
[6] Ibidem, cfr. pp. 26-27.
[7] Ibidem, p. 27.
[8] il suo vero nome è María del Carmen Ferreyra. Cfr. Ibidem, p. 37.
[9] Ibidem, p. 37.
[10] Ibidem, p. 33.
[11] Commento di Wu Ming 2 all’articolo Passione e delirio a #Macao, disponibile qui: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7991&cpage=1#comment-12206
[12] www.wumingfoundation.com/giap/?p=4288