Pubblicato su casoesse.org il 5 giugno 2012
Wu Ming 2, Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Einaudi: 2012, pp. 536
«Radio Boscaglia dice che i morti sono stati almeno un centinaio»
È facile celebrare. L’Italia, la Resistenza, gli Italiani Brava Gente, Indro Montanelli e l’emancipazione femminile. Cosa ben più complicata è raccontare. Celebrazione rima infatti con consolazione ma non con storia. Una narrazione consolatrice perde sul nascere, taglia le scene scomode e impacchetta una memoria di cristallo pronta per l’uso. Ma quello che più di tutto si apprezza di una storia consolatrice è che rassicura e conforta, solleva dal peso della critica e in altre parole assolve, evitando di coinvolgerci nei suoi significati. Timira non consola, non celebra ma racconta. Ci prende per mano e ci invita a camminare con lei sui confini dei significati, a calpestare insieme le terre di frontiera, che da sue diventano nostre – di noi e di lei –; sedimenta «impronte di formica sopra una lacrima di retorica fossile».
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Sembrerebbe difficile immedesimarsi in una vecchia italiana dalla pelle non troppo nera ma non abbastanza bianca e per di più confusa dalla definizione del suo status. Una profuga in patria, con un fratello semi-illustre, costretta a cercare risposte nelle voci del dizionario: profugo, rifugiato, sfollato e a dichiararsi sconfitta di fronte alla banalità delle parole. Forse qualcuno a cui la vita ha regalato emozioni forti al retrogusto di rhum somalo riuscirà a entrare nel personaggio di Timira, a combaciare con i suoi fianchi sformati, ma in molti più che sostituirsi a lei accoglieranno l’invito a camminarle accanto, al ritmo lento dei suoi passi e al tempismo della sua sfacciata ironia.
Al trio di autori Isabella Marincola, Antar Mohamed e Wu Ming 2 va il merito di aver sciolto il lettore nella narrazione come un cartone animato in salamoia. In una pagina ci si ritrova a camminare insieme per le vie della Roma fascista tra artisti, sguardi predatori e caffè letterari. Basta girarla per sentire l’odore acre di polvere e militari tra le macerie della Mogadiscio degli anni Novanta o quello di un rosso di Montepulciano a Villa Somalia, con il compagno Bettino (Craxi) ed il compagno Siad (Barre).
La geografia del romanzo va oltre, non si limita al colonialista parallelo tra la Roma fascista e la colonizzata Somalia ma come un fiume carsico riporta in superficie le contraddizioni della Prima Repubblica e s’infila prepotentemente nell’anno 2012, tra cimiteri in fondo al mare, sbarchi, profughi, primavere arabe e condanne di violazioni dei diritti umani della Vecchia Europa alla Nuova Europa. La celebrata culla dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità, smemorata sul fronte della tolleranza e dell’accoglienza. Tra le pagine spazio anche alla Bologna degli studenti fuori-corso, fuori-sede e fuori-porta sempre in doppia, a un bicchiere con Merushe, una ragazza albanese che apre le bottiglie di vino con trucchi da maga, e a una lavata di panni nel Savena in compagnia del misterioso 1956.
Dopo l’apocalittico quanto terreno Guerra agli umani, e Il sovversivo, stile No Tav, Sentiero degli Dei, Wu Ming 2 impasta a sei mani, ma sono molte di più, Timira: un romanzo meticcio come da sottotitolo. E come dargli torto?
Meticcio negli autori stessi: «un cantastorie italiano dal nome cinese» «un’attrice italo-somala ottantacinquenne» e «un esule somalo con quattro lauree e due cittadinanze».
Meticcio nel titolo: vedi i Titoli di coda del libro.
Meticcio nella protagonista: un’italo-somala dal nome e cognome in bilico.
Meticcio nello spazio: Mogadiscio, Bologna, Roma ma anche le fisse dimore di Isabella, la biblioteca di Wu Ming 2, gli aeroporti e le intermittenze.
Meticcio nella forma: documenti d’archivio, diari, prima persona e terza persona s’intrecciano a invenzione letteraria e realtà storica in un romanzo meticcio che vuole uscire dalle logiche sterili e unidirezionali delle biografie fini a sé stesse ribadendo con forza che «la scrittura non funziona come un recinto: se metto una storia sulla pagina non la faccio mia. Al contrario ne moltiplico gli autori». Dunque un oggetto narrativo non identificato che rompe le gabbie dei generi e s’impone al lettore preoccupandosi più dei contenuti e delle tecniche narrative che del canone da rispettare. Ma anche un romanzo di trasformazione storica [1] e non di ambientazione storica proprio perché la storia non è sul fondale ma in primo piano. Sono infatti i personaggi in carne ed ossa a farla, a costituire l’intreccio di realtà e invenzione e a interagire con i personaggi fittizi non il contrario.
Non si può infine non notare nella scrittura una sensibilità e un’attenzione particolare alla prospettiva di genere non ascrivibile alla sola presenza di Isabella Marincola in regia ma anche al lavorìo intrapreso sul tema dal collettivo Wu Ming. Con il termine genere qui s’intende il significato della traduzione inglese gender (relativo al genere femminile) e non genre (relativo a un genere letterario specifico). Timira è quindi anche un romanzo di genere (gender), e utilizza tale prospettiva per abbattere l’idea del romanzo specificamente di genere (genre).
«Per lungo tempo, mi sono raccontata che mio padre è stato un gentiluomo, che ha fatto un gesto generoso, molto insolito per quei tempi. Darci il suo cognome, il nome dei nonni. Ma ora che ascolto mia madre, ora che lei può parlare, mi rendo conto che devo accettarlo: sono figlia di una violenza, e lo sarei anche se i miei genitori si fossero tanto amati, come in un bel fotoromanzo. L’amore ai tempi delle colonie è impastato di ferocia. Un pugnale affilato minaccia e uccide, anche se lo spalmi di miele»
Per approfondimenti:
Tutti i post di Giap dedicati a Timira: http://www.wumingfoundation.com/giap/?cat=1322
Foto e documenti d’archivio di Giorgio e Isabella Marincola: www.razzapartigiana.it
[1] ascolta la registrazione di «Wu Ming a Mantova: Letteratura e Trasformazione Storica» (mp3, 98mb)