[Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Edizioni Alegre, 2014, pp. 192]
Che cosa hanno in comune un operaio e uno scrittore, un saldatore e un traduttore? La risposta non è più semplice se quell’operaio è il padre morto ammazzato di un figlio scrittore, che ora, con quest’opera, ricostruisce la vita del suo vecchio a suon di schegge negli occhi e mazzuolate sul cuore. Lo fa impastando l’ironia e la leggerezza – con la quale Renato bestemmiava e combatteva i potenti – alla violenza della fabbrica e del mercato.
Alberto Prunetti ha dovuto scavare, sporcarsi e ferirsi le mani con la terra e gli attrezzi dell’officina, perché sa che solo così potrà metabolizzare, senza mai digerire, una storia che si ripete ogni giorno uguale e che non è solo sua: la storia di una minuscola fibra che s’insinua in milioni di corpi, la storia di un lavoro inumano e irrinunciabile che modifica quei corpi.
Amianto è la sintesi più spietata del mercato del lavoro, di quello attuale e di quello che è sempre stato. Di quella macchina, tanto infernale quanto terrena, che mentre contamina le cellule vitali, lacera le carni e le logora fino alla deformazione fisica. Il testo oltre a ribadire che i bei tempi non sono mai esistiti ci mostra il processo che porta all’accurata selezione e macellazione delle carni. Tra sfruttati e sfruttatori infatti, solo i primi finiscono negli allevamenti intensivi del profitto, imbottiti di polveri sottili e storditi da ritmi di lavoro insopportabili. I secondi si godono la grande abbuffata, indifferenti e complici dello sterminio. Tutto ciò viene descritto con linguaggio semplice e diretto, più vicino alla strada e alla campagna che all’astrazione dei massimi sistemi. Le voci di un padre e di un figlio dalle vite apparentemente distanti si fondono in un dialogo sincero tra amore e rabbia.
Amianto è insieme mille e una storia, un racconto che dovrebbe essere ristampato e ampliato ogni anno, che andrebbe letto nelle scuole e in fabbrica, nelle Società di Mutuo Soccorso e negli ospedali. È un testo che si trova tranquillamente a suo agio nei peggiori bar di Follonica e nei corsi universitari di letteratura contemporanea.
A Città del Messico qualcuno lo sta già utilizzando per l’insegnamento della lingua italiana. Meriterebbe di essere tradotto in molte lingue e per il cinema o il teatro. E questo perché è un’opera che va oltre la carta stampata, stimola connessioni, dibattiti, incontri e moltiplica in maniera esponenziale i suoi significati.