Pubblicato su Carmilla il 19 giugno 2014
Colombia-Costa d’Avorio, 19 giugno 2014
Siamo molte e molti qui a Rio de Janeiro. Tutti architetti e architette: Mikel e Iñigo dal País Vasco, Rebeca e Pablo dalla Galizia, Andrés e Jimena da Madrid, Victor da Maiorca e una manciata di Marie provenienti da tutta la penisola iberica. Io sono una di quelle e per distinguermi dalle altre – Maria “Manaus”, Maria “Caipirinha”, Maria “Niemeyer” – mi chiamano Maria “Catalã”.
Sono arrivata a Rio due anni fa, dopo un mese avevo già un lavoro, dopo tre ho rinnovato il visto di turismo e dopo sei sono dovuta rientrare in Spagna se non volevo diventare clandestina, certo una clandestina di serie A perché europea ma sempre clandestina. Tornata a Barcellona mi sono iscritta online a un’università privata di Rio de Janeiro e sono riuscita a ottenere dal consolato brasiliano di Madrid un visto da studente della durata di un anno. Ho pagato la retta dei primi tre mesi, saltata su un volo e ritornata nella stessa casa diroccata nel quartiere di Santa Teresa, nello stesso studio d’architettura su Rua Joaquim Moutinho.
Le prime lezioni dell’Università privata le ho anche frequentate ma di prendermi in giro mi sono stufata presto. Un conto è raccontarle al consolato di Madrid e alla Polícia Federal brasiliana, un conto è raccontarle a me stessa. I miei dodici mesi “in regola” li ho conquistati e questo mi basta. Per noi emigranti spagnoli si è fatta più dura ottenere un timbro sul passaporto da quando il governo di Madrid ha deciso di rispedire al mittente un aereo brasiliano pronto all’atterraggio in suolo iberico. La sequela di incidenti diplomatici ce la siamo presa nel culo tutta noi mica quegli stronzi di diplomatici, spagnoli o brasiliani poco cambia. Questa storia dell’iscrizione fittizia all’università per me è una novità ma c’è gente che da anni va avanti così. Ci ringraziano ogni giorno del nostro lavoro in nero altamente qualificato ma nessuno chefe si decide mai a compilare le carte per una puta mierda de visa de trabajo.
Mia nonna quando ha saputo che me ne andavo in Brasile a cercar lavoro m’ha subito domandato se questo Brasile non era vicino all’Argentina. E io le ho detto che sì, che ci confina pure ma è molto più grande e là parlano il portoghese. «E lo so ben, menina, che là parlan la lingua della tua vecchia, anzi, dicon che là, non parlan proprio, contan che la gentecanta!» È nata a Penavaqueira la mia vecchia, un paesino di campagna vicino a Ourense in Galizia, e lo spagnolo le è sempre andato per traverso almeno quanto Franco, Salazar e tutte le loro croci inghiottite insieme. L’Argentina invece era un ricordo dolce dei racconti di quand’era piccina, ché la sua mamma era nata lì e la sua nonna emigrata oltreoceano per un pezzo di terra promessa e mai mantenuta. «Ora sei tu che parti e sfidi l’oceano. Io me ne resto qui a resister, attaccata a questo scoglio, come la terra mia resiste al tuonar dei cavalloni. Boa viaxe, querida!»
Come la vecchia della mia vecchia partivo senza piani da architettare ma per un pezzo di terra da edificare. Invece che al porto di Lisbona in terza classe, il baule lo riempivo del mestiere che in Spagna m’avevan perculato a suon di speculazioni e lo imbarcavo al gate di Barcellona. Il volo più economico mi costringeva a scali bizzarri: Francoforte-Salvador-San Paolo e finalmente Rio; ma avevo poco da lamentarmi: la vecchia della mia vecchia c’impiegò quasi un mese per vedere le fauci de la Plata.
Ventidue ore dopo il contatto tra il carrello di atterraggio e la pista dell’aeroporto Galeao di Rio mi svegliava di soprassalto. Sono trascorse solo tre settimane ma la strada in taxi dall’aeroporto al centro è mutata d’improvviso. Alte barriere si innalzano ai lati della carreggiata di destra, paraocchi per un cavallo d’acciaio e cemento con in groppa centinaia di taxi e van. I pannelli che impediscono la vista dei morros sono colorati da bombolette anestetizzate, murales istituzionali che aggiungono violenza alla violenza. Se si gira lo sguardo verso sinistra s’intravede invece l’ampiezza della Baia di Guanabara con Niteroi sullo sfondo. Perché queste barriere? «le hanno tirate su per il Mundial» mi risponde il tassista. Dopo qualche minuto sorride, bestemmia Pelè, e continua: «le autorità possono al massimo nascondere una città in una favela, ma non una favela in una città. Rio è uma favela com a cidade no meio non il contrario. Rio non la puoi nascondere».
Non faccio in tempo ad entrare nello studio che mi propongono un lavoro a Brasilia. Un mese per visionare e coordinare i lavori in un palazzone del centro. Un incarico di responsabilità, così lo chiamano loro; che in Spagna me lo sogno, penso io. Vivere qualche settimana a Brasilia, per un’architetta, è come per un’antropologa immergersi tra le popolazioni della Melanesia e provare a toccare con mano il kula di Malinowski. Il primo impatto è devastante. Arrivo di sera, il sole non mi aspetta, la mia capa sì, salgo sulla sua macchina e ci avviamo verso il centro. Tutto intorno è il deserto. Ripenso alle immagini in bianco e nero del libro di architettura, alla spianata di terra – rossa annotava la didascalia – immortalata in uno scatto aereo e poi alle facce sorridenti di Lucio Costa, Oscar Niemeyer e Burle Marx con alle spalle gli scheletri del sogno modernista.
Gli scheletri. Eccoli. Prendono vita davanti ai miei occhi. Più surreali che mai. Sbucano marziali ai lati della strada i parallelepipedi dei ministeri, si ripetono uguali uno dopo l’altro alla medesima distanza. Vestono divise fosforescenti di vetro e cemento e arginano il fiume d’asfalto e prato inglese che sgorga tra loro. Si squadrano simmetrici e freddi, automi pronti a riversarsi sulla piana per dar manforte alla fanteria. Ma dove sono tutti? La città è spettrale, donne e uomini assenti. Sfrecciamo sulla quarta delle sei corsie che costeggiano i ministeri alla nostra destra. Al di là del prato di cui non s’intravede la fine, altre sei corsie e altri ministeri sinistri. Nessun uomo a piedi può avere cittadinanza in questo organismo urbano pianificato. Nessuna donna attraverserebbe a piedi queste strade. Nessun bambino giocherebbe in questo prato ghiacciato.
Organismo pianificato per chi Juscelino? Para quem? Per la tua industria di automobili JK? Di quanti schiavi dal nordest ti sei servito per costruire dal nulla una città in soli quattro anni? Non bastavano centinaia di anni di deportazione dall’Africa alle Americhe ora dalla costa li costringevi ad emigrare all’altipiano di Goiàs! Da zero a mille metri di altitudine, dalla brezza dell’oceano all’afa dell’interior. Un buon governo doveva finalmente prendersi la responsabilità di completare l’opera colonizzatrice, tu hai avuto il coraggio di intraprendere la strada giusta. L’unica possibile, quella del progresso. Da vero pioniere hai occupato e popolato i territori dell’interno per capitalizzare le risorse minerarie che offrivano. Di braccia ne avevi quante volevi e le hai sfruttate a volontà. Quanti sono i candangos seppelliti sotto l’ordine di Brasilia? Quanti Juscelino, quanti Lucio, quanti Oscar, quanti Burle?
La mente vola a quell’altro folle di Le Corbusier, vorrei scacciare i suoi scritti dalla testa ma le torri che s’innalzano parallele in fondo alla piana mi costringono al ricordo. Intrappolata tra i pensieri, come quel braccio che le unisce, apro le labbra di stupore: due scodelle compaiono ai lati delle torri. In quella aperta verso il cielo si riversa la Camera, in quella cappottata a terra è rinchiuso il Senato. Il potere è tutto qui. Rivedo le due facciate del tomo di storia di architettura occupate dalla pianta di Brasilia: lo scheletro di un aereo, il fossile di un uccello dalle grandi ali. In questo momento, Maria, ti trovi nella cabina di comando, abbiamo appena percorso tutta la fusoliera dell’aereo. La città è perfettamente organizzata e ordinata, ci sono le zone riservate alle attività commerciali, c’è il distretto delle banche, quello dei supermercati, degli hotel, delle farmacie e così via. Sulle ali dell’aereo si sviluppano le superquadras, ovvero i complessi residenziali “tipo” di Brasilia, uniformi e omologati. Stiamo andando lì.
Ecco la tua supequadra – vivrai qui per un mese – ecco la tua macchina – senza questa a Brasilia non puoi muoverti – ecco il tuo indirizzo – non spaventarti:
Shcgn 706/707, Bloco D, Entrada 16, 2º Pavimento
Asa Norte. Brasília – DF
70740-640, Brasile
A Brasilia tutti gli indirizzi hanno molti numeri e una buona quantità di lettere, dovrai abituarti. È un mese infinito quello che trascorro nella capitale. I lavori nel palazzone del centro vanno a rilento, dovrò rimanere almeno un altro mese, il pensiero mi dà rabbia. Non ho ancora nessuno che possa assomigliare neppure lontanamente a un amico. Fortuna che i muratori sono simpatici. Il colore della loro pelle è la stessa dei deportati che hanno costruito Brasilia nel 1956. Forse non hanno mai smesso di costruirla. Nella mia superquadra non c’è una piazza. La sera non ci sono luoghi di aggregazione. Con chi socializzo? Scendo in strada, mi metto al volante, parcheggio, entro in uno pseudo locale d’ambientazione texana, ordino hamburger e patatine, la musica è alta, le immagini scorrono sugli schermi, la birra Antarctica scorre giù per l’esofago e risale fino alla testa. Scorrono altre immagini, scorrono altre antarctiche. Eppure a Rio bastava uscire in strada, andare a una festa, bersi una caipirinha di venerdì alla Pedra do Sal. Qui è tutto più difficile. A Brasilia non succede nulla.
Mi sveglio con una resaca da far invidia alla terra della mia vecchia. Sono in ritardo e sono ancora ubriaca. Corro per le scale. Inserisco la chiave e sfreccio al lavoro. All’altezza dell’Eixo Monumental strabuzzo gli occhi. Tarderò. Quanti sono? Sembrano migliaia. Non credevo che quelle dodici corsie più centinaia di metri di prato potessero essere occupate da esseri umani. I manifestanti sono seduti a terra, alcuni sventolano le bandiere del dell’MTST, il Movimento Dos Trabalhadores Sem-Teto, altri hanno le teste coperte da copricapi indigeni. Archi alla mano e facce dipinte rivendicano il diritto alla terra, la stessa che lo Stato federale brasiliano vuole demarcare e spartirsi. Scendo dalla macchina e vado incontro alla moltitudine ma prima che possa confondermi con la folla il fumo bianco dei lacrimogeni mi acceca, mi accascio, torno indietro, corro, mi chiudo in macchina e, anche se non voglio, questa merda negli occhi mi costringe a piangere. Qualcosa si muove. Dov’era prima tutta questa gente?
Arrivo al lavoro con gli occhi lacrimanti, i muratori mi guardano con preoccupazione, mi chiedono cosa sia successo, gli racconto del fumo, dei manganelli che spezzano gli archi, delle facce dipinte di sangue. Fernando si avvicina e mi guarda gli occhi. Ti hanno colpita? No, ma non riesco a smettere di piangere. Forse ora un po’ ne ho anche voglia. Corre di sotto e torna con cinque lime tra le mani. Li taglia, li spreme e mi applica il succo intorno agli occhi e alla bocca. Gli occhi rimangono gonfi ma dopo qualche minuto il bruciore si allevia. Grazie. Avranno ammazzato qualcuno? Forse. L’Esplanada dos Ministérios sembra fatta apposta per uccidere, il prato è un cimitero inglese senza croci.
I mondiali sono iniziati da una settimana. Qui, nel contestatissimo stadio intitolato a Mané Garrincha, la prima partita si è giocata quattro giorni fa. Hanno speso milioni per ristrutturare un’arena calcistica che potrà ospitare migliaia di persone. Peccato che a Brasilia non sappiano giocare a calcio. La squadra più blasonata milita in serie C e quando ci sono duemila tifosi ad acclamarla è un evento storico. Ma i grandi burocrati dicono che qui si potranno ospitare grandi manifestazioni internazionali che noi non ci immaginiamo neppure. Maledico il governo insieme a Fernando e agli altri lavoratori. Malediciamo i mondiali e i soldi cacciati al vento da un governo che si ostina a prostituirsi al capitalismo. Le partite di Brasile e Spagna però non vogliamo perdercele. A casa di Bruno vediamo Brasile-Croazia e Spagna-Olanda, mentre nel bar di un amico di Fernando, tra una Itaipava e l’altra, ci sgoliamo Brasile-Messico e Spagna-Cile. Ci sono voluti i lacrimogeni per riconoscerci, socializzare e ritrovarsi insieme.
La notizia è di quelle inaspettate, nei piani alti dello studio di architettura qualcuno ha deciso di rinunciare ai biglietti per la partita di questa sera. Con Fernando e gli altri la tentazione di andare allo stadio la abbiamo avuta più di una volta questa settimana. Due motivi ci hanno frenato: il costo dei biglietti spropositato e l’idea stessa di legittimare ciò che continuiamo a ritenere una guerra internazionale ai danni della popolazione brasiliana. Le partite del Brasile sono le meno accessibili. La seleçao si paga cara. Cinque biglietti gratuiti, che facciamo? Chi gioca? Colombia-Costa d’Avorio. Non sono il Brasile ma non ci pensiamo due volte. Usciamo dall’edificio e ci dirigiamo a piedi verso lo stadio. Blindato. La polizia a cavallo, la stessa che caricava all’Esplanada, circonda l’arena. Li odiamo tutti, dal primo all’ultimo. Ci perquisiscono ad uno ad uno. Finalmente entriamo. Immenso. Esagerato. Colorato. La musica di Shakira e la presenza di poliziotti ovunque rovina il colpo d’occhio. Le formazioni entrano in campo: casacca gialla per i colombiani, verde per gli ivoriani. Le maglie richiamano la bandiera del Brasile. La pelle in campo è la stessa dei muratori di Brasilia. Avrebbero potuto costruirla loro.
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