In risposta all’intervento Mondiali di calcio: ovunque ma non in Brasile? di Gennaro Carotenuto dell’8 giugno 2014.
Qui non si tratta di giudizi astratti e di visione occidentalistica del mondo, qui si tratta di criticare un governo che decide di abbracciare in toto gli strumenti del capitalismo più becero stampando sulla propria bandiera – accanto al dogma “ordine e progresso” – la parola neoliberismo. E non si tratta neppure di dare un giudizio paternalistico e neocoloniale sull’adeguatezza o meno del Brasile a ospitare un Mondiale.
I costi esorbitanti (di cui beneficerà chi?) e i morti nei cantieri sono un dato di fatto che non si può liquidare in due righe; così come le mobilitazioni brasiliane non possono essere sminuite e svuotate del loro significato più profondo. Non c’è nessun sovvertimento radicale di gerarchie nel «rigiocare dopo 64 anni i mondiali nel paese che simboleggia il calcio più di ogni altro». La vera sovversione sarebbe stata tirarsi fuori dai cannibaleschi pranzi di gala del capitalismo mondiale, cosa che né Lula, né Dilma hanno avuto il coraggio di fare. Non si esce da nessuna «gabbia della centralità dell’Occidente» con i medesimi strumenti dell’Occidente, ma ci si entra a capo fitto nella gabbia e con un gesto definitivo che rischia di svuotare completamente di significato le politiche sociali portate avanti dai due leader.
Non si può aprioristicamente difendere e assolvere un governo e un’amministrazione pubblica che a Rio de Janeiro dal 2008 ha deciso di intraprendere un processo di pacificazione delle favelas che si traduce in quotidiana azione militare nelle aree più povere della città, demolizione con ruspe e carri armati di intere comunità e dislocamento forzato di migliaia di persone. Non si possono chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò. Non si può fare finta di niente e ingenuamente pensare che l’intensificazione di questo processo non sia strettamente legato ai grandi eventi: Mondiale e Olimpiade a coronare il tutto. A Rio è percepibile a occhio nudo il cambiamento in corso, la città sta mutando di giorno in giorno con un processo di ristrutturazione urbana improntato alla divisione di classe e all’inasprimento del confine delle disuguaglianze sociali.
I grandi eventi hanno acceso le polveri dei conflitti che attraversano la società brasiliana amplificando la deflagrazione delle proteste e portando all’attenzione internazionale le contraddizioni di un governo “progressista” incapace di proporre un’alternativa radicale e immaginare un futuro slegato dal modello capitalistico dominante.
Per approfondire alcuni aspetti relativi al conflitto tra sviluppo urbano e diseguaglianze sociali nella città di Rio de Janeiro consiglio la lettura di Brasile: cartografie delle disuguaglianze di Jacopo Anderlini